Museo Antropologia

Palazzo Cavalli

 

Sito lungo una delle principali arterie che immettono al centro storico, in un’area compresa tra la cinta muraria comunale e quella cinquecentesca, Palazzo Cavalli deve il suo nome alla famiglia, che lo edificò e lo abitò per quasi tre secoli: la sua costruzione, negli anni sessanta del Cinquecento, è infatti legata all’affascinante figura di Marino Cavalli il Vecchio, ambasciatore veneziano in contatto con le principali potenze europee. A pochi anni dalla sua erezione, il palazzo salì agli onor di cronaca per una terribile vicenda, che ebbe qui il suo esito ultimo: l’uccisione, per mano del cugino del defunto marito Paolo Giordano Orsini, della Duchessa di Bracciano Vittoria Accoramboni. Il palazzo fu quindi profondamente rinnovato a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo per iniziativa di Federico Cavalli e della moglie Elisabetta Duodo, che commissionarono l’imponente apparato decorativo tuttora conservato. Alla fine del Settecento la proprietà passò al figlio dell’ultima rappresentante della famiglia, Giacomo Bollani, i cui eredi lo cedettero allo stato, che lo adibì a dogana. Dal 1892 ospitò quindi la Scuola di Applicazione per Ingegneri dell’Università di Padova e dal 1932 le collezioni e l’Istituto di Geologia, oggi Dipartimento di Geoscienze[1].

Nonostante gli adeguamenti richiesti dalle diverse destinazioni d’uso, la struttura del palazzo si è conservata quasi integra e denuncia l’origine cinquecentesca nella equilibrata distribuzione degli ambienti, pressoché omogenea per i tre piani dell’edificio: al pian terreno si trova il cosiddetto “portego da baso”, a forma di T, che disobbliga in tre sale laterali, mentre al primo piano un omologo “portego de sora” presenta uno sviluppo verticale doppio fino al mezzanino, cui segue il sottotetto. Se il piano superiore era destinato ai ricevimenti e ospitava le camere padronali, al piano terra trovavano posto le cucine, il tinello e gli ambienti di servizio, altre camere da letto o ad uso studio.

Affascinante il ciclo decorativo del piano terra, oggi attribuito al frescante padovano Michele Primon, che vi illustrò episodi ispirati alle Metamorfosi di Ovidio (nell’atrio), alla storia romana (sala cosiddetta “dei Telamoni”) e a quella biblica (sala “del caminetto”), oltre alle scene venatorie della “Sala della Caccia”. Lo scalone è invece opera degli artisti bolognesi Antonio Felice Ferrari e Giacomo Parolini e rappresenta una sorta di ascesa spirituale, oltre che fisica, verso il piano nobile, accompagnati dalle Muse e sotto la guida di Apollo. Risale al primo decennio del Settecento la decorazione del Salone da ricevimento per mano del pittore francese Louis Dorigny: nei grandi riquadri sono presenti soggetti di carattere mitologico, mentre il fregio a monocromo mostra un trionfo di amorini in varie pose giocose. Irrimediabilmente perduto è il soffitto originale, ridipinto alla fine dell’Ottocento con un’allegoria del trionfo della Scienza e della Tecnica.