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Giornata della Memoria

In ricordo di Bruno Rossi


 

In forza delle leggi razziali emanate dal regime fascista, nel 1938 furono allontanati dall’Università di Padova oltre 200 tra docenti, tecnici e studenti ebrei: cacciati dalle stanze di Palazzo del Bo, espulsi dal consesso civile, devastati professionalmente e umanamente; alcuni di loro, in seguito, deportati e uccisi ad Auschwitz.

Il Centro di Ateneo per i Musei ha deciso di dedicare il suo ricordo a Bruno Rossi, gigante della fisica e dell’astrofisica del XX secolo, di cui il Museo Giovanni Poleni conserva diversi strumenti, tra cui una “camera a nebbia” o camera di Wilson per rilevare e fotografare le particelle, un grosso elettromagnete per deviare particelle cariche di alta energia provenienti sia dall’acceleratore sia dai raggi cosmici, realizzato su richiesta di Rossi da Giovanni Someda, e diversi contatori Geiger. Strumenti che, utilizzati con un circuito elettrico da lui stesso inventato, gli permisero molte clamorose scoperte sui misteriosi raggi provenienti dallo spazio: i raggi cosmici.

 

 

IN RICORDO DI BRUNO ROSSI

a cura di Chiara Marin e Sofia Talas


Veneziano classe 1905, formatosi tra Padova e Bologna e poi docente dapprima a Firenze e dal 1932 presso il nostro Ateneo, dove era stato chiamato a ricoprire la cattedra di Fisica Sperimentale, in quel tragico ottobre 1938 Bruno Rossi non solo venne espulso dall’insegnamento, allontanato dagli studi sui raggi cosmici cui si dedicava da anni e dagli appassionati allievi, che stava avviando alla ricerca, ma fu anche brutalmente estromesso dall’Istituto di fisica “Galileo Galilei”, attuale sede del Dipartimento di Fisica e Astronomia, che lui stesso aveva progettato fin nei minimi dettagli, facendone una delle strutture più avanzate dell’epoca. Non solo laboratori generici, camere oscure, sale di esercitazioni per gli studenti, stanze adibite allo studio dei raggi X, alle ricerche sulla radioattività e una torre destinata allo studio dei raggi cosmici: il nuovo Istituto, inaugurato poco più di un anno prima, avrebbe dovuto ospitare anche un acceleratore da 1 milione di volt per lo studio della “disintegrazione artificiale dei nuclei atomici” (uno dei primi due del genere in Italia), la cui costruzione era già a buon punto. 
Il professore era, a ragione, estramamente fiero del suo lavoro, ma questa innovativa strumentazione non poté essere da lui utilizzata.

Da pochi mesi sposato a Nora Lombroso, nipote del celebre antropologo Cesare, apparentemente concentrato esclusivamente sulla fisica, in realtà Rossi non aveva mancato di cogliere i segnali d’allarme che derivavano dalla minacciosa situazione internazionale e dalla dilagante ondata antisemita, che aveva coinvolto anche l’Italia. “Era assurdo, totalmente inimmaginabile”, avrebbe poi rimarcato nelle sue memorie, “Nell’Italia moderna, non esisteva l’antisemitismo. La comunità ebraica, sebbene influente, era numericamente poco rilevante (circa un migliaio di persone sul totale della popolazione). Che fossero ancora fedeli alla loro religione, convertiti al Cristianesimo o diventati agnostici, gli Ebrei erano perfettamente integrati nella società italiana. Avevano combattuto, al fianco degli altri italiani, nelle guerre di indipendenza. Nella nazione unita nata da queste guerre, gli Ebrei avevano rivestito posizioni di prestigio nel governo e avevano partecipato attivamente alla vita artistica, letteraria, scolastica ed economica del paese. La scuola italiana di matematica, celebrata a livello internazionale, era in gran parte frutto di studiosi di origine ebraica. Questa radicata fratellanza fra Ebrei e non-Ebrei in Italia ha resistito fino alla metà degli anni Trenta, quando, su pressione della Germania nazista, cominciarono a manifestarsi i primi segnali di un incipiente antisemitismo. Poche persone, allora, ritenevano che simili atti avrebbero portato il Regime fascista a mettere ufficialmente in atto una politica antisemita, che sarebbe risultata troppo impopolare. Ma l’opinione pubblica sbagliava” (B. Rossi, Momenti nella vita di uno scienziato).

Nel settembre del 1938 Rossi ricevette dall’allora rettore Carlo Anti la lettera, che lo informava della sua espulsione dell’Ateneo: “Compio il dovere di avvertirvi che in base all’art. 3 del Regio Decreto – Legge 5 settembre 1938 – XVI, n. 1390, recante ‘Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista’, a datare dal 16 ottobre corrente siete sospeso dal servizio”.
Bruno Rossi non è più docente, non è più un ricercatore, non è più un cittadino italiano. Tra le carte del suo archivio personale, insieme a “quel documento che conservo ancora e in cui si dice che possono fare a meno di me all’Università”, le pagine dei giornali dell’epoca su cui lo stesso Rossi aveva sottolineato il proprio nome negli elenchi delle persone estromesse dalla vita pubblica recano drammatica testimonianza di quei giorni terribili.
Descrivere questo evento come una tragedia sarebbe una volgare esagerazione; a quel tempo la vera tragedia era il destino di così tante persone in Europa. Ma fu un duro colpo. Fortunatamente avevo amici all’estero, e contavo che, con il loro aiuto, avrei potuto cominciare una nuova vita in un paese straniero. Non era facile per noi lasciare l’Italia senza sapere se vi avremmo mai potuto far ritorno, senza sapere cosa sarebbe successo alle nostre famiglie rimaste indietro. Ma Nora, con una chiara percezione del grave pericolo che incombeva su di noi se fossimo rimasti, insistette perché partissimo il prima possibile”.
Il giorno che Rossi varcò per l’ultima volta le porte del suo Istituto nessuno andò a porgergli i suoi saluti. Nessuno, eccetto il portiere, Mario Calore, che lo aspettò, in lacrime, alla base della scala. Bruno gli sarebbe stato per sempre riconoscente.

Grazie al sostegno della moglie, all’inestinguibile passione per la fisica e alla solidarietà di molti membri della comunità scientifica internazionale, Rossi trovò la forza di ricominciare. Fu una vita di ricerche, e di successi: a Copenaghen, Manchester e poi in America, dove fu tra i protagonisti del cosiddetto “Progetto Manhattan”, che portò alla realizzazione della prima bomba atomica. “L’invito a partecipare a Los Alamos mi era stato portato da Hans Bethe ai primi di luglio. Seguì un periodo di grande, penosa incertezza. Potevo facilmente immaginare quello che si stava facendo a Los Alamos, e rifuggivo dall’idea di partecipare allo sviluppo di un ordigno così spaventoso come sarebbe stata la bomba atomica. D’altra parte ero terribilmente preoccupato, così come molti altri, dal pericolo che in Germania, dove era stata scoperta la fissione, si fosse vicini a realizzare la bomba. Essendomi rassegnato al fatto che né accettando né rifiutando la richiesta di Los Alamos potevo sottrarmi a una pesante responsabilità, vidi che la scelta non poteva essere basata che sulla necessità di combattere l’immediato pericolo”. E subito dopo la prima esplosione di una bomba atomica nel deserto vicino alla base di Trinity annotava: “Poco dopo l’esplosione partii per Los Alamos, un viaggio di circa 350 miglia. Con me in macchina c’erano Benjamin Diven, Otto Frish e una WAC. [...] Uno dopo l’altro i miei passeggeri caddero addormentati, e così io venni lasciato solo con i miei pensieri. Fino ad allora, la pressione del lavoro era stata tale che non avevo avuto tempo di riflettere. Ora, il terribile significato di quanto avevamo fatto mi colpì in pieno. Debbo confessare che, di tanto in tanto, provavo una certa soddisfazione per aver partecipato, sia pure in piccola misura, a un’impresa così incredibilmente difficile, di tale importanza storica. Ma questo sentimento veniva presto sopraffatto da un senso di colpa e da una terribile ansietà per le possibili conseguenze del nostro lavoro. Sentimenti questi che vennero riacutizzati quando, alcuni giorni dopo, seppi della distruzione di Hiroshima e di Nagasaki. Io, come molti dei miei colleghi, avevamo sperato che la bomba sarebbe stata usata in una dimostrazione incruenta, per indurre il Giappone alla resa”.
Nel 1946 Rossi fu chiamato al Massachusset Institute of Technology (Mit), dove trascorse il resto della sua carriera. Per sua volontà, alla morte, nel 1993, venne sepolto al Cimitero delle Porte Sante a San Miniato al Monte.

Il periodo padovano rimase nei suoi ricordi segnato dal dolore. Non dimenticò né perdonò mai quell’episodio drammatico e il modo in cui si erano comportate le persone che avrebbero dovuto essergli vicine: nelle interviste e nei racconti autobiografici è evitato ogni esplicito riferimento alle importanti ricerche condotte in quegli anni, di cui invece vengono ricordati i risultati in lavori posteriori.
Quando nel 1987 tornò a Padova per il cinquantennale della fondazione dell’Istituto di Fisica, Bruno Rossi non volle mettervi piede.

 


Bibliografia essenziale
Bruno Rossi, Momenti nella vita di uno scienziato, Bologna 1987
Giulio Peruzzi, Sofia Talas, Bruno Benedetto Rossi – The Italian Years 1928-1938, Padova 2005
Luisa Bonolis, Bruno Rossi and the Racist Laws of Fascist Italy, Physics in Perspective, 13 (2011), pp. 58–90
Bruno Rossi, L’enigma dei raggi cosmici, Padova 2012
Giulio Peruzzi, Bruno Benedetto Rossi,l’inesauribile ricchezza della natura”, Il Bo Live, 2018

Patrizia Guarnieri, Alessandro De Angelis, Bruno Benedetto Rossi (2020), in Patrizia Guarnieri, Intellettuali in fuga dall’Italia fascista. Migranti, esuli e rifugiati per motivi politici e razzialiFirenze 2019-, http://intellettualinfuga.fupress.com

 

Guarda i video dedicati ai suoi strumenti conservati presso il Museo Giovanni Poleni